Con il freddo intenso dell’inverno si ripropone la vita e la morte dei clochard nelle grandi città. E’ il filo esile di una resistenza sempre pronta a spezzarsi al minimo alito di vento. Margini di una società che non ha tempo di pensare, di chiedersi perché, di sentirsi anche un po’ responsabili del fondo raggiunto dall’essere umano. Qualche anno fa ricordo di avere recensito il libro di Francesca Barra intitolato: “Tutta la vita in un giorno” edito da Rizzoli. E ricordo pure di aver intervistato l’autrice all’interno del suggestivo chiostro della Chiesa di San Papino che fu organizzato dal presidente dell’Associazione Culturale Teseo di Milazzo, Dr. Attilio Andriolo. Ebbene, ricordo ancora oggi con quale cura preparai quell’intervista dopo aver letto quel libro che mi colpì particolarmente per la storia di personaggi, uomini e donne come tanti che ad un certo punto della loro vita si sono lasciati andare alla solitudine, accompagnati soltanto dalla strada, dalla panchina di un giardino o dei sedili delle grandi stazioni ferroviarie. Storie di un umano che Francesca Barra ha saputo raccontare con dovizia di particolari per essersi travestita da clochard e aver vissuto quell’esperienza in prima persona. E’ stato il suo viaggio tra la gente che sopravvive, mentre nessuno se ne accorge: “L’unico straordinario allenamento è decidere chi vuoi essere. Un sudicio, una puttana, un alcolista. Un randagio, un poveraccio. O uno come me. Uno che era normale. Un onesto cittadino, un lavoratore, un padre, un marito. Uno che a un certo punto non ha avuto più niente, si è ammalato di depressione e non ha saputo più da che parte ricominciare. Uno come me, oggi, vive la strada. L’annusa come un tossico, quando sa di piscio mescolato a vino”. E’ la cruda testimonianza di uno dei tanti clochard che l’autrice incontrò sulla sua strada per narrare le tante storie di vita finite ai margini della società, mentre la gente guarda e passa frettolosamente. Un problema sociale che è antico come il mondo, in cui l’essere umano spesso finisce la sua esistenza all’angolo di una strada sopra un cartone, una coperta, un sacco a pelo, la bottiglia di vino e la puzza di vomito, oppure su una panchina dove al mattino ci si accorge che è morto assiderato. Storie di vita che raccontano drammi personali e famigliari che troppe volte sfuggono alla coscienza comune intrisa di egoismi senza spazio per capire l’altro. E tutta questa mia riflessione scaturita proprio in queste giornate fredde d’inverno in cui tutti noi siamo presi dall’ansia di vivere un periodo storico di emergenza pandemica e di morti per covid 19, nulla è cambiato sotto il profilo dell’attenzione e del rispetto della persona. Di quei padri disoccupati, separati e sconvolti da un destino sadico che camminano e non fanno rumore, che si mettono in disparte a sopravvivere in solitudine la propria tristezza e rassegnazione. Oggi come ieri, domani come sempre, è la storia dell’uomo che sfugge ai nostri occhi per la miopia dell’anima. Tutto come le tante storie raccontate da Francesca Barra in quel suo libro che mi ha dato modo di conoscere un mondo che ti lascia passare per strada, guardare e continuare a camminare senza minimamente porti il perché.
Salvino Cavallaro